Oggi guardavo mia figlia. Come sapete, scherzosamente, mi riferisco a lei e a Mattia con il termine di MiniMe e, in effetti, oggi ho visto una MiiniMe.
Mentre cucinavo, giocava con il suo cellulare giocattolo. Una scenetta familiare. La guardavo e pensavo: ma caspita! Sono io! Si, stava facendo esattamente quello che mi vede fare tutti i giorni: teneva il telefono nello stesso modo, si muoveva avanti e indietro per la stanza, proprio come faccio quando, di corsa con una mano spolvero e con l’altra tengo l’iPhone per conversare con mia mamma. Gesticolava, parlando a raffica.
Proprio come me.
Una MiniMe con i fiocchi: stessi atteggiamenti, stessa intonazione della voce, stessi movimenti.
Lo ammetto, mi sono vergognata.
Mi sono dispiaciuta, perché a venti mesi, non può volersi già fare i selfie e conversare al telefono. Soprattutto perché è colpa mia.
La cruda verità.
Sapete io ci provo, come tutti, a insegnare i giusti valori, a mettere qualche paletto già dove serve. Poi, però, rovino tutto. Come?
Con l’esempio.
Già, i nostri figli ci osservano, anche quando non ci badiamo, anche quando non ci pensiamo. Loro ci osservano, ci imitano e imparano.
Non è finita, perché dopo aver conversato per cinque minuti con il suo interlocutore immaginario, accovacciandosi, ha appoggiato a una parete il suo cellulare, proprio come faccio io quando mi scatto una foto da sola, e poi, è corsa lontana per mettersi in posa.
Mi scappava da ridere, ma ho anche pensato che avrei fatto meglio ad andare a nascondermi.
Certo, lì per lì, è stata pure una scenetta divertente, ma riflettendoci su, quasi quasi mi sarei messa a piangere.
Apprendimento osservativo: imparare osservando.
Come lo sanno fare i bambini, nessuno mai.
Sono attenti, non sfugge nulla al loro sguardo curioso e poi, ripetono.
Sono il nostro specchio e purtroppo, non sempre ci mostrano il meglio di noi, come è accaduto a me oggi.
Poco dopo, sempre rimuginando su quanto accaduto, sono uscita di corsa per andare a recuperare Mattia all’asilo.
Nel tragitto verso casa, mentre eravamo fermi poco prima delle strisce pedonali, una macchina si è fermata per farci attraversare, Mattia l’ha guardata, ha fatto un cenno con la mano e ha esclamato: grazie!
Proprio come me.
Di nuovo, come Amalia poco prima, mio figlio mi ha fatto da specchio… riflesso (si come quel giochetto che facevo da bambina).
Okey, mi sono detta tutta giuliva, ho pareggiato i conti: 1 a 1.
Per fortuna, allora, non sempre con l’esempio faccio danni, ma è una magra consolazione, perché di danni dovrei proprio evitare di farne.
C’è allora, da rifletterci su per bene, da acquisire maggiore consapevolezza, perché come è noto, i fatti contano più delle parole.
Perché è vero che è quasi scontato. Nel manuale del buon genitore, al capitolo uno c’è proprio scritto: “dare il buon esempio”. Chi non lo sa?
Ci sono però, degli atteggiamenti, delle abitudini che noi adulti abbiamo, che sono radicate in noi e che, come tali, a volte dimentichiamo di avere, anzi forse, fanno talmente parte di noi, che nemmeno li notiamo.
Poi, capita anche quel giorno in cui pensi, ingenuamente, se dico una parolaccia, ha 11 mesi, cosa vuoi che capisca!
Invece no, cari miei. Capisce eccome e non solo, state certi che quella parolaccia sarà una delle prime cose che ripeterà contestualizzandola perfettamente.
Perfetto. Chi ha detto che esiste il genitore perfetto?
Io no!