Chi non conosce il mondo del portare, a prima vista potrebbe pensare che in fondo è solo un pezzo di stoffa con cui legare i figli come fanno “gli zingari” (come mi è stato detto più volte) e, per alcuni anche indice di povertà, (è capitato di sentirsi dire: “eh! costano tanto i passeggini… o ancora eh! non possono permettersi un passeggino!).
In realtà, se faccio il conto del prezzo di tutte le fasce che ho, almeno due passeggini ci escono.
Sfatiamo quindi, un falso mito: le fasce non sono un’alternativa al passeggino perché non possiamo permettercelo. Se inoltre, al valore effettivo, aggiungiamo il valore affettivo, una fascia usata può valere davvero molto.
Al di là di queste considerazioni, vi siete mai chiesti che valore abbia per il benessere e per la crescita di un bambino l’essere portato? In inglese, appunto, babywearing?
Per prima cosa, cambiamo prospettiva e vediamo questo pezzo di stoffa colorato come relazione. La relazione tra madre e figlio. Se vi fate un giro sul web, cosi per curiosità e incominciate a “googlerare” babywearing ed esogestazione, scoprirete che forse, la fascia, non è proprio una moda del momento o un regredire rispetto al fantascientifico progresso che i passeggini e i trio di oggi hanno fatto.
Aspettate! Ora che ci penso, si! In qualche modo è fare un passo all’indietro, ma per ritornare alle origini, per recuperare la naturalezza che c’è nel prendersi cura dei propri cuccioli seguendo l’istinto.
Scoprirete cosi, che la letteratura in merito, è tanta e che di fatto è un bellissimo gesto d’amore e un dialogo tra mamma e bambino, che fa bene alla cuore, alla mente e al fisico di entrambi (io sono tornata al mio peso forma in sette mesi dopo il parto).
Come forse, avrete notato anche solo curiosando tra le mie foto, i bambini non vengono sempre portati allo stesso modo: troverete legature davanti, sul fianco e sulla schiena.
Perché?
Avete mai sentito parlare di esogestazione? Come sapete per noi uomini, mammiferi a tutti gli effetti, la gravidanza o endogestazione, dura nove mesi, ma a differenza di tutti gli altri mammiferi, i nostri cuccioli non sono subito pronti “a seguire il branco”. Per molto tempo, prima di camminare sicuri sulle proprie gambe, i nostri figli hanno bisogno della mamma e del papà. Per questo motivo si parla di esogestazione, ossia un periodo pari a quello della gravidanza, nove mesi appunto, che servono al bambino per adattarsi al mondo. Una gestazione extrauterina dove si completa ciò che è iniziato in quella intrauterina.
Il motivo per cui questa preparazione e questo adattamento non si concludono nella pancia della mamma, è puramente un limite fisico: potete immaginare cosa voglia dire per una donna partorire un bimbo delle dimensioni di uno di 9 mesi?
Dal momento che quindi, nasciamo ancora immaturi, l’uomo rientra nella categoria dei “portati attivi”, cioè siamo geneticamente predisposti a essere portati. Volete delle prove? Pensate alla posizione delle gambine di un neonato, formano quasi una O, sono flesse, in posizione divaricata seduta, quindi in posizione perfetta per aderire al corpo della mamma quando portati. Ancora, appena nati sappiamo già tenere i pugni chiusi: un indizio filogenetico che ci riconduce a quando, un bel po’ più pelosi di ora, i cuccioli si aggrappavano alla pelliccia della mamma. Potete trovare maggiori informazioni qui sul sito web della “Scuola del Portare”.
Nella prospettiva che vi sto presentando, quella appunto dell’esogestazione, potete immaginare quanto sia di fondamentale valore poter accudire i propri figli appena venuti al mondo, in modo da averli a contatto, come nel ventre materno.
Le prima legatura che si impara è quella DAVANTI, pancia a pancia si dice, ossia il triplo sostegno. Qui la relazione tra.madre e figlio continua come nella pancia. Siamo tu ed io.
Quando incontri una neo mamma con il suo piccino così portato, sembra quasi che lei abbia ancora il pancione. Me lo ricordo bene, spesso quando qualcuno incuriosito da questo fagottino nascosto, mi fermava per strada, la prima frase che mi usciva era;” è bellissimo è come averlo ancora nella pancia!”. È proprio cosi.
Dopo i primi mesi, in genere quando i bimbi iniziano a tenere su la testolina (intorno ai quattro mesi), la posizione cambia, si passa al FIANCO. Ecco. La prima apertura al mondo, ancora a contato stretto con la mamma, ancora una posizione di protezione, ma il bimbo incomincia a guardare il mondo. Se prima la sua terra da esplorare era il corpo della mamma, ora il bimbo incomincia a guardarsi attorno.
Con Ami questo passaggio è avvenuto intorno ai 4 mesi. Te ne accorgi proprio quando è il momento: lei non voleva più stare tutta nascosta e con il visino sul mio petto. Lei si girava tutta, si spingeva all’indietro con la testolina.
L’ultimo passaggio è quello per il quale ho deciso di scrivere questo post: portare DIETRO, sulla schiena, altrimenti detto, è arrivato per noi il tempo dello zainetto.
Il tempo dello zainetto è quello della fiducia: figlio mio, mi fido di te. Ora che sei sulla schiena io non ti vedo, sei libero di fare ciò che vuoi: tirarmi i capelli, guardare il mondo. Siamo sempre insieme, ti sento, ma non ti vedo e io, aggiungo, non ti respiro (adoro respirare il profumo di Amalia).
Capite bene che, secondo quest’ottica, questo passaggio è molto importante. E per quanto vedo in giro mamme che si sfidano a chi lo fa prima (ho visto zainetti a nemmeno un mese del bimbo), io tutta questa fretta non ce l’avevo.
In genere si passa alla schiena intorno ai 6/7 mesi del bimbo. Lo si fa anche perché, fisicamente reggere davanti più di 7kg, diventa difficile e oneroso per il genitore, inoltre dal punto di vista del movimento, diventa tutto più semplice. Nel nostro caso, posso abbracciare Mattia, posso rincorrerlo nelle sue fughe al parco e acchiapparlo al volo. Insomma un’altra vita. Però, non vedo più il visino di Ami che da sotto mi guarda con i suoi occhioni grigi regalandomi il sorriso sdentato più bello del mondo. Però, non posso più baciare la sua testolina (infatti quando impari le prime legature davanti, ti viene insegnato che l’altezza giusta a cui deve stare la testa del piccolino è quella del bacio). Però, non posso abbracciare il suo corpicino. In qualche modo ora è Ami che abbraccia me.
Di fatto, quindi, passare a portare dietro, per me, vuol dire dare un nuovo taglio (anche se piccolo) al cordone ombelicale. Come in tutte le cose che faccio per loro però, se i miei figli mi danno un segnale di maggior indipendenza, io lo accolgo e lo assecondo. Anche se questo.mi fa in qualche modo male al cuore. Non è il mio compito di genitore sostenerli nella loro crescita verso l’autonomia? E allora così sia. Non li lascio soli, loro imparano che io ci sono sempre, che io sono la loro “base sicura” da cui partire e a cui ritornare ogni volta che vogliono. Almeno io ci provo.
E allora anche in questo caso, ho deciso: è arrivato il momento dello zainetto.
In questo mio percorso, la vita ha portato (vedete è sempre questione di portare) una persona davvero speciale, me l’ha presentata come consulente del portare (colei che ha fatto la scuola del portare ed è cosi formata a insegnare le legature alle mamme), ma poi oltre a quello per me è diventata un’amica.
La sua competenza e la sua pazienza hanno fatto miracoli con me. Tutto è iniziato con Matty che avrà avuto 13 mesi e con me che mi ero fissata di volerlo portare in Ring. La ring è una fascia rigida e a una delle due estremità sono cuciti due anelli. Si fa scivolare dentro l’altro lembo e poi la si indossa. La posizione é quella sul fianco. È molto pratica e veloce da indossare una volta che si è presa confidenza. È adatta agli spostamenti veloci (il peso del bimbo viene scaricato su una sola spalla) e anche quando il bambino inizia a camminare, quando cioè è un continuo sali e scendi.
Con Mattia ho usato poco la fascia e molto il marsupio. Con Amalia il contrario. Perché? Perché nel frattempo mi sono informata meglio e mi sono rivolta a Selene, la mia consulente, quella di cui vi dicevo prima.
Eccoci qui: Selene un mese fa mi dice:” okey siamo pronte per lo zainetto!” Che meraviglia, penso. Oddio panico, penso anche.
La cosa che più di tutto mi spaventava era come caricare Amalia sulla schiena senza farla cadere. Una volta in groppa già mezzo lavoro è fatto. Per questo momento avevo pensato a una consulenza individuale: solo Amalia, Selene e io. Per una serie di eventi invece, alla fine ho partecipato a una consulenza di gruppo. Ed è stato bellissimo.
L’incontro si è svolto in un negozio, Coccole & Sorrisi, che all’occorenza diventa fascioteca e ospita questi incontri (qui nella mia pagina sulle fascioteche di Genova maggiori dettagli).
Sedie messe in circolo e nello spazio in mezzo tanti cuscinoni, bimbi e fasce. Il gioco è fatto! Si può iniziare.
I vantaggi della consulenza di gruppo sono molteplici: la condivisione con altre mamme ( in genere non più di 5 o 6), la conoscenza di altre mamme come te con cui anche fare due chiacchiere. Tanti bimbi che ti girano intorno e magari giocano con il tuo (a seconda dell’età). La possibilità di vedere e rivedere più volte i passaggi della legatura. Lo fai tu e poi lo fanno le altre mamme. Tutte ovviamente assistite e supportate dalla consulente. Infine, fare la consulenza di gruppo comporta anche uno sconto rispetto a quella individuale e in momenti come questi, poter avere il meglio con un po’ di sconto, consente di non dovervi rinunciare. E non è poca cosa.
Imparare a fare lo zainetto ha richiesto un pò di maglie sudate,tra la tensione per la paura di far cadere Ami, l’impegno per ricordare tutti i passaggi, il caldo effettivo…la posizione piegata tutta in avanti, quando ho chiuso l’ultimo nodo, sembravo una pazza, con i capelli sparati stile Maga Magò, occhi a palla e quasi il fiatone. La faccia di Amalia era pure un programma: occhioni sgranati e qualche urletto dopo, in ogni cado, sembrava gradire questa nuova prospettiva.
Ma alla fine, quando a casa con calma ho provato da sola, riuscire a fare il nostro primo zainetto è stato uno dei momenti piu indimenticabili. E volete sapere perché sono convinta di averlo fatto bene? Perché in tempo zero, la mia polpttettina si è addormentata, la testolina reclinata sulla mia spalla, il suo respiro regolare. E lì, in quel momento e in quel gesto, ho capito che stavamo cambiando la prospettiva sul mondo, ma lei era ed è ancora la mia piccolina.